Il lettore immagini un paese ai margini della storia: un mondo naturale, nei cui confini i fatti esterni scorrono lenti e ripetitivi. Gli uomini sono ordinari e comuni, semplici come creature senza inquietudini; le vicende eternamente uguali. Il tempo ha l’andamento ciclico delle stagioni, che passano e ritornano: «una vita scandita da ritmi lenti, in una ritualità antica e muta». L’universo sembra essere «ameno e domestico», come il suo villaggio poteva apparire a don Abbondio, prima che i bravi insegnassero l’esperienza del male, della violenza e dell’ingiustizia. In un’esistenza affidata alle grandi leggi del cosmo soffia la calma «di un ordine naturale dell’universo, con un grande senso di pace interiore». Il fluire della vita è indicato dalle luci delle giornate e dai colori degli alberi: unico segnale di un mutamento altrimenti inavvertibile...
…Eppure, anche questa realtà non è semplice come appare. La vita riserva sorprese e trasalimenti. L’anima si arresta, si spezza e vacilla. Si aggroviglia sulle proprie paure o, al contrario, si accende all’improvviso per un sogno dimenticato da qualche parte dentro di sé. Il tempo si dirige non solo in avanti. Può anche arrestarsi. Può perfino rivolgersi sui suoi passi, smettere di avanzare e ridiventare passato. In questo caso, i fantasmi ritornano. Ospiti indesiderati, portano il soggetto che li ritrova lontano dal suo equilibrio. In modo subdolo circondano l’anima e la insidiano. Gli esseri umani, che sembravano a una sola dimensione, rivelano un’inattesa profondità. Custodiscono memorie sepolte, conservano ricordi di cui sono melanconici guardiani. Nascondono paure segrete. All’improvviso il loro universo si altera. Le ombre che il passato ha lasciato ritornano a galla dentro l’anima.
Dalla Post-fazione del Prof. Matteo Palumbo, Docente di Letteratura Italiana all'Università Federico II di Napoli.
"Il Silenzio della neve è il romanzo di esordio come scrittore di Giuseppe Filidoro. È un bel libro, semplice e ricco, che dall’inizio alla fine ci parla (fra tante cose) della funzione del racconto.
Perché si scrive e si racconta? Per mettere quel che resta di sé nella punta della penna (pag. 265). E Filidoro ci prova con una prosa ironica e pacata, che ha il passo malinconico e dolce delle Memorie dell’imperatore Adriano mentre riflette sulla sua vita: ho recitato bene la mia parte? Cosa resta, cosa resterà di me? Perché quello che resta è anche quello che conta; e che, quasi sempre inconsciamente, si trasmette agli altri. Già, ma alla fine si può “avere consapevolezza di quel che si è stati”, si riesce a trovare la verità di quel che resta? Di quel che lega nel nodo del nostro destino il passato (che a volte si può aggiustare, ma a volte no) e il futuro - che non esiste proprio, dice Filidoro. Qual è il dettaglio importante? Quale aroma o sapore, quale frase, insulto o carezza ci ha segnato e ha deciso del modo in cui abbiamo vissuto - del coraggio o della paura, della ribellione oppure della sottomissione a una vita che all’improvviso non ci sembra più nostra, ma di qualche fantasma che si presenta nel nostro tribunale interiore e chiede giustizia? Difficile giudicare. “La vita a volte è crudele, a volte tragica oppure comica…e le vicende umane si dipanano in maniera incomprensibile e imprevedibile” (pag. 240), secondo un disegno a noi ignoto. Per raccontarci di questo groviglio di contraddizioni Giuseppe Filidoro prende spunto da un ipotetico e realissimo paese di quel sud da cui lui stesso proviene. Sbozza i personaggi scolpendoli intorno allo stereotipo del loro soprannome (come succede nei paesi): ‘u Cafone, ‘u Student, il Megafono, ‘a Capatosta… E poi si lascia prendere dai suoi personaggi, si innamora di queste povere controfigure che fa vivere sotto la sua penna misericordiosa; vi infonde a poco a poco un’anima, una storia e cioè vizi e passioni, generosità e viltà, e odi e amori ingenui e “cattiveria, avidità, malanimo o rancore” (pag.182). Insomma, tutto il bene e il male che nella vita si trovano mescolati e che dunque non ci permettono di giudicare nessuno, né la vittima né l’assassino, senza che prima ci siamo guardati un po’ dentro. Ecco allora che la letteratura è proprio lo strumento di conoscenza che ci può far capire perché succedono le cose e perché la condizione umana è quello “gnommero” (o garbuglio) che è. E questo anche se la scrittura, il racconto e le parole sono “cose d’aria” per dirla con Montalbano, oppure “arnesi da fumo” per dirla come Filidoro. E qui mi fermo: il meglio di questo bel libro il lettore fortunato lo dovrà scoprire da sé.
Piero Feliciotti
Il silenzio della neve di Giuseppe Filidoro è un romanzo intensamente psicologico. Con la sua narrazione oggettiva seppure profondamente empatica, l’autore ci conduce non in una grande città, bensì in una realtà paesana e contadina del sud Italia, tra vicende di gente semplice. Personaggio di spicco è il “medico condotto e fine letterato” Don Vincenzo, intorno al quale si snodano le storie personali dei protagonisti, suoi pazienti e compaesani, ai quali l’autore attribuisce un soprannome, secondo l’espressione più diffusa della creatività popolare e comune a molti paesi e borghi d’Italia. Accanto a Don Vincenzo la figura di Donatino Sapienza, professore di lettere, nonché suo amico d’infanzia e colto interlocutore. Il vissuto di ogni paesano è apparentemente normale, in realtà Filidoro in questo suo romanzo dal tono familiare e piacevolissimo, percorre ed indaga con passo silenzioso l’interiorità dell’animo umano e dei suoi comportamenti; la vita in paese avverte la nostalgia dei tempi passati, ogni storia personale antica e recente, vicina e lontana, focalizza l’attenzione sul tema essenziale del romanzo: il tempo sembra arrestarsi di colpo ed il passato diviene chiave d’interpretazione di un presente che crea turbamenti ed inquietudini nel cuore di ognuno. Come in ogni paese che si rispetti, ogni protagonista ha il suo mestiere ed un vissuto ad esso legato; difetti, debolezze, sfumature caratteriali ed aspetti folcloristici ecco che si riassumono in ogni nomignolo, incontrando la simpatia e l’ilarità del lettore. Le storie inventate si mescolano alle storie vere, quelle del paese in cui lo spettacolo prende vita, dove convivono ignoranza e furbizia, intelligenza e saggezza contadina, superstizione e misteri, maldicenze ed indiscrezioni e colpi di scena, che sfociano addirittura in un delitto. Con il sopraggiungere della neve con la “sua candida materialità” ecco rinnovarsi anche il timore della morte, che nel romanzo s’identifica con l’entrata in scena di un nuovo personaggio, un uomo sconosciuto “chiuso in un cappotto nero, semicoperto da una sciarpa di lana e con lo sguardo spento su un mezzo sorriso”.
Lo stile del romanzo è molto fluido, linguisticamente impeccabile in cui si alternano sfondi paesaggistici dai tocchi poetici ed immagini introspettive che rendono il racconto molto toccante, facendo leva su sentimenti che coinvolgono il lettore. In una sorta di verismo poetico, i differenti stati d’animo e gli stessi paesaggi fanno da specchio ad identità i cui pensieri, ricordi ed emozioni vengono tratteggiati con assoluta spontaneità e profondo rispetto. La scelta di Filidoro di assegnare ad ogni protagonista un nomignolo oltre che il vero nome, risulta una caratteristica “denotativa” originale ed ironica, non solo a voler sottolineare situazioni legate a caratteristiche fisiche o comportamentali, bensì ad evidenziare sia il rimpianto di un mondo perduto, con la scomparsa del paese di una volta, dove tutto era condivisione nella più assoluta spontaneità, sia la necessità di liberarsi di esso per costruire una nuova identità: “ Quanta tristezza e rabbia nelle nostre esistenze da ostaggi!”. Le variazioni della velocità e del ritmo contribuiscono alla vivacità e all’espressività della narrazione in una prima parte del libro, per rallentare negli ultimi capitoli, con l’immagine ripetuta del silenzio, che arriva con monologhi interiori pervasi da “misteri del cuore”, in alcuni passi persino da crisi di coscienza.
Il silenzio della neve è una sottile analisi psicologica, Giuseppe Filidoro sottolinea il significato ed il valore del silenzio, della natura circostante e di ogni essere, toccando così i lati oscuri della nostra anima, con l’intento di favorire nel lettore una riflessione profonda e graduale su quanto di più nascosto affolla la mente ed il cuore. Un delicato scorrere delle stagioni, in cui si ritrova il mondo contadino della nostra terra con la sua ironia e i suoi tempi, il sapore di una saggezza mai dimenticata e tutta da scoprire, momenti che corrono sul filo della melodia delle reminiscenze. Un romanzo introspettivo, quasi un’esplorazione di ciò che è la vita umana nella trappola che il mondo è diventato e la doppia valenza tra morte fisica, trasformazione ed evoluzione interiore. Senza il silenzio mancano le condizioni per ascoltare ed ascoltarsi. Nel rumore questo invito non si può sentire, ripartendo dal silenzio interiore, la comunicazione diviene condivisione e comunione con l’altro e consapevolezza di un legame più intimo con noi stessi per recuperare la nostra identità.
Una sagra paesana, una celebrazione della vitalità e della effervescenza dei piccoli centri di una Italia ormai scomparsa; una galleria di ritratti e una sequenza di eventi ora tristi ora lieti, ripetitivi eppure capaci talora di esplodere in sorprendenti casi insoliti o bizzarri. E tutto sotto lo sguardo incantato dell'autore che compie qui, intrecciando storie, il miracolo di resuscitare per se stesso e per il lettore un mondo che certo lo ha visto incantato spettatore.
Davvero una bellissima sorpresa il romanzo di G. Filidoro, una piccola perla che (ricordando autori noti quali il nostro Andrea Vitali o l'islandese Jón Kalman Stefánsson di Luce d'estate ed è subito notte) parte da una piccola comunità per parlare di temi di più ampio respiro: l'uomo e la sua intera esistenza.
Il silenzio della neve è, infatti, un mosaico di vite che si intrecciano, si incontrano, si scontrano, vanno avanti in una quotidianità apparentemente calma e senza ombre, ma celando invece innumerevoli segreti, speranze nascoste, dolori e amori.
Una serie di particolarissimi personaggi si muove tra le pagine di questo libro e sembra quasi vivere di vita propria. Persone con caratteri ben definiti, assolutamente reali al punto che sembrano quasi entrare nella quotidianità del lettore, che dopo un po' inizierà a pensare a loro con i nomignoli con i quali sono noti in paese, quasi come se ci si trovasse tra vecchi amici.
I nomignoli, oltre che simpatici, hanno anche il pregio di identificare perfettamente il ruolo e la caratteristica principale di colui che li porta, ecco allora che l'Appuntato è Sceridàn, così chiamato ironicamente dai suoi paesani perché decisamente agli antipodi rispetto al più famoso e decisamente più sveglio tenente Sheridan della nota serie televisiva; ecco che il barbiere è noto come Totò Megafono, per l'idea classica di colui che conosce (e diffonde!) i segreti di tutti; Mario Scorzone, per il carattere ruvido; Concetta Capatosta, per ovvie ragioni e così via per tutti i principali personaggi che si incontrano col procedere della storia.
Questo luogo ameno e ricco di paesaggi piacevoli e riposanti, in cui il lettore si ritrova catapultato anche grazie alle belle ambientazioni descritte dall'autore, dove il ritmo delle giornate sembra scorrere lento e sereno, è in realtà percorso da innumerevoli correnti sotterranee.
Sono i ricordi di errori fatti, di gesti compiuti (o non compiuti) che hanno lasciato il segno e che, nonostante gli anni, sembrano sempre star lì ad aspettare la resa dei conti... perché si sa, il passato prima o poi torna, torna il bisogno di riflettere sulle scelte fatte, la necessità di farsi perdonare per il dolore causato o quella di accettarsi, finalmente, per ciò che si è, con pregi e difetti, virtù e debolezze, semplicemente... se stessi.
Ben scritto da ogni punto di vista, ricco di spunti di riflessione, coinvolgente, malinconico ma anche allegro ed ironico. Un romanzo che vale davvero la pena leggere!
(Maria Guidi)
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